Stranges | Quell’anno in cui...
Stefano Stranges
In una quotidiana raffigurazione irreale costituita preminentemente da autorità, ricercatori, commentatori e caporioni Stefano Stranges scrive la storia della pandemia di COVID-19 dalla prospettiva dei veri protagonisti: la gente comune.
Non la scrive come narrazione illustrata, né come fotografie casuali che potrebbero essere sottoposte a un processo di distorsione del senso originario, ma come corpus di immagini frutto di una selezione da parte dello stesso autore le quali, usando il linguaggio di Peter Burke in “Eyewitnessing”, diventano “traccia” del passato nel presente e assumono lo stato di testimonianza, di prova oculare, in un progetto a detta dell'autore aperto, non concluso, come la pandemia stessa.
Le duecento — come i metri del confino — fotografie, accompagnate da brevi annotazioni scritte schiettamente a mano, descrivono gli effetti della pandemia attraverso la luce, principalmente, ma anche — e qui interviene il mestiere dell'autore — attraverso meravigliosi giochi di sfocati, riflessi e trasparenze che permettono al lettore di immergersi emotivamente nel contesto proteggendo gli interpreti, custodendone l'intimità e accentuando la sensazione di distanza trasmessa dai mezzi di protezione.
Se uno dei concetti che ritorna frequentemente nelle opere dell'autore è quello di casa — intesa non semplicemente come edificio ma piuttosto come:«Habitat in cui l’uomo si ripara, si rifugia, si incontra con altri uomini e condivide con questi sentimenti e quotidianità» (S. Stranges, presentazione del progetto Homeland) — nello sconvolgimento dei legami comunitari che la pandemia ha causato la casa fotografata dall'autore diventa il reparto ospedaliero, la chiesa o la moschea, la cucina in cui si preparano i pasti o la strada stessa: l'insieme delle immagini forma così un album familiare nel quale la casa non si abbandona mai: piuttosto si visitano continuamente nuove stanze.
Ecco che allora immagini talmente affascinanti da divenire iconiche, unitamente, formano ciò che Giovanni De Luna e Chiara Colombini in Storia affermano:«Quanto più si legano a un contesto familiare, comunitario, quotidiano, tanto più le fotografie mostrano la capacità di documentare tradizioni, abitudini, relazioni sociali e interpersonali che appartengono alla rappresentazione e all’autorappresentazione della gente comune».
I cinque capitoli del libro — dagli occhi della mia quarantena; in limbo; resistenza; barriere; quell'anno in cui... l'essere umano ritentò — partono dal trauma del lockdown e viaggiano attraverso l'angoscia dei pazienti, il lavoro del personale sanitario, la riconversione di spazi e attività, l'impegno a sostenere le persone più fragili per arrivare infine alla riapertura, sempre nel segno di quella resistenza solidale verso chi è più a disagio e di quella difficoltà a comunicare e relazionarsi caratteristica del distanziamento fisico e sensoriale.
Quella che ne esce fuori è una realtà nella quale il morbo colpisce ciecamente ma, aggravando le differenze socio-economiche contemporanee, non indifferentemente; una realtà in cui stare vicino perde l'accezione di essere prossimo per acquisire quella di agire per il prossimo.
Un volume concepito, impaginato e stampato ad arte che, in maniera raffinata, porta a riflettere su quanto una società malata innanzi tutto di individualismo abbia ancora i semi di una risposta collettiva e condivisa pronti a germogliare.
Se una foto mi piace, se mi turba, io v’indugio sopra. Che cosa faccio per tutto il tempo che me ne sto davanti a lei? La guardo, la scruto, come se volessi saperne di più sulla cosa o sulla persona che essa ritrae […] Se i miei sforzi sono dolorosi, se sono angosciato, è perché talora sono vicino al nocciolo, è perché ci sono: nella tale foto, io credo di scorgere i lineamenti della verità.
(R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia)
ISBN: 9788831370219. Prinp Editore, 224 pagine 20x25cm. Sito dell'editore